Cenni sulla Gravidanza e sull’Esperienza del Transito alla Maternità secondo la Teoria Funzionale del Sé

“In cima al monte della tua pancia non so decidere

se la mia vita sta andando in salita o in discesa …

Fino ad oggi la vita mi ha abituato

ad avere sempre tutto sotto controllo.

Il mio lavoro lo faccio scorrere lungo il binario del prevedibile.

Ora tu vieni, invece, a portare una nuova regola:

la regola della non regola.

Non so chi sei, non so come sarai, so solo che ci sei.

E questo a volte mi fa sperimentare una vertigine assoluta.

Mi sembra di camminare come un acrobata

che muove lentamente i suoi passi su una fune sospesa a metri da terra …

E una grandissima paura, che nasce dal profondo,

da un luogo sotterraneo e nascosto dentro di me

- cui io non riesco ad avere accesso -

mi paralizza e ferma il mio cammino.

Ho paura, ho una enorme paura”.

(A. Pellai, 2007)

 

Il modo di vivere la gravidanza e la nascita di un bambino sono profondamente cambiati negli ultimi sessant’anni, parallelamente ai mutamenti sociali, culturali ed ai progressi della medicina.

Sono molteplici le modifiche subite dalle famiglie nel corso del secolo passato in funzione delle radicali trasformazioni sociali, demografiche e culturali: inurbamento, nuclearizzazione familiare, minor numero di figli, ruoli della donna, etc. Tutti questi fenomeni di rapida modifica e complessificazione della società occidentale hanno avuto diverse conseguenze, ancora in evoluzione, sulle modalità di transizione alla genitorialità, in particolare sulle modalità di trasmissione, acquisizione ed elaborazione delle conoscenze oltre che sulla definizione della progettualità educativa[1].

In questo quadro complesso e in evoluzione rapidissima, anche l’attesa e il parto si sono svestiti della loro dimensione naturale, intima, familiare. In ospedale la donna è diventata una paziente come gli altri, da monitorare e analizzare, guadagnando molto in termini di sicurezza medica per sé e per il suo bambino ma perdendo moltissimo della dimensione intima, spontanea, personale, istintiva, viscerale e unica di uno dei momenti più significativi del suo percorso di vita.

Come conseguenza di questo processo di medicalizzazione dell’evento gravidanza-parto, accanto al bisogno e all’inclinazione naturale ad abbandonarsi alle onde del travaglio e della fase espulsiva, c’è spesso il timore di perdere il controllo e di essere incapaci di gestire la situazione. Questa paura deriva in buona parte dai contesti socio culturali in cui la donna vive. Seguire l’istinto non è cosa facile se, nella vita quotidiana, ci si deve comportare in modo molto controllato, dovendosi adeguare agli schemi sociali che richiedono principalmente di ampliare i funzionamenti mentali - razionali.

Porre nelle mani dell’esperto un evento da sempre sinonimo di naturalità, ha fatto perdere il senso di competenza insito in ogni donna, che troppo spesso dimentica che in lei risiedono saperi, risorse e istinti profondamente radicati che, sin dai tempi delle caverne, la guidano nella pratica della nascita e di accudimento dei piccoli. Durante il travaglio, il vero bisogno è quello di allontanarsi dalla mente e dalle preoccupazioni per lasciare che il corpo segua i propri ritmi naturali e spontanei. Ci troviamo di fronte a una esperienza molto profonda che comporta una regressione alle sensazioni più semplici e primitive. La lentezza del travaglio ha una funzione protettiva di preparazione del bambino all’imminente funzionamento degli organi vitali ma ha una funzione protettiva anche per la madre; “[...] anche per lei percepire il passaggio faticoso, lento e graduale del bambino nel canale del parto verso la vita è un modo per essere presente, accompagnare, un modo che la protegge dalla perdita improvvisa, cosa che invece lascia spesso l’amaro in bocca alle donne cesarizzate. E’ infatti un tempo prezioso per passare dalla percezione viscerale della presenza del bambino alla scoperta di una comunicazione diversa, sostitutiva, che consolerà dalla perdita di quella compagnia profonda, attutita, misteriosa che ha accompagnato per mesi”. [2]

 

Francesca La Vecchia, Zentrum Mensch

 


[1] (Nyström, Ohrling, 2004; Andreoli, 2009; Crittenden, Landini, 2012; Zambianchi, 2012; Grussu, Bramante, 2015).

[2] (Giuliana Mieli , “Il bambino non è un elettrodomestico”, cit. pag. 46)